Alla fine degli anni Trenta il jazz non solo era sopravvissuto alla Depressione (ottobre 1929), ma era diventato l’unica musica di consumo del paese. Certo, questa categoria va intesa in senso molto lato. Gran parte del cosiddetto “jazz” era in realtà musica da ballo o leggera. In effetti, in un paese dove ancora oggi la maggioranza della gente ignora l’esistenza del jazz, ogni ulteriore suddivisione tra vero jazz e derivati è considerata accademica. La massa mette Guy Lombardo, Lawrence Welk e Liberace nella stessa categoria di Artie Shaw, Goodman e Basie, che a loro volta non sono lontani da Beatles, Madonna e Bruce Springsteen, e magari da Dolly Parton, Helen Reddy e Kenny Rogers. Al grande pubblico non raffinato non sembra importi molto se un musicista o cantante improvvisa e un altro no, se l’uno è nero e l’altro è bianco, se uno veste in modo bizzarro e l’altro no, se uno sa due accordi e l’altro è un genio, né gli importa di accertarne le autentiche doti o virtù.
Negli anni Trenta, all’epoca in cui i vari stili detti “Swing” regnavano sovrani, la musica nazional-popolare era lo Swing di Goodman, Glenn Miller e Artie shaw, non certo quello di Ellington e Lunceford (nella foto). Anzi, forse i veri beneficiari della voga furono orchestre ancora più innocue e commerciali: i vari Kay Kyser, Orrin Tucker, Wayne King e Sammy Kaye. In un’epoca più selettiva, e con un pubblico esigente, queste miriadi di mediocri compagini da ballo non sarebbero fiorite, o non in tal numero. Esse scopiazzavano e banalizzavano le invenzioni e lo stile dei grandi maestri neri, riducendoli a un insulso minimo denominatore di facilità.
Ma il consumatore medio non se ne curava. Non si rendeva conto che le orchestre bianche che volevano suonare jazz autentico e inventivo pagavano arrangiatori neri. O che i grandi del jazz apparivano di rado nei radioprogrammi di successo, o che uno dei più grandi (qualcuno direbbe il più grande), Louis Armstrong, non divenne un nome familiare ai più se non molti anni dopo aver toccato l’apogeo, quando per caso incappò in un successo intitolato Hello, Dolly.
Per lo storico e lo studioso serio, un’analisi oggettiva del jazz non può non partire dall’ammettere alcuni dati: 1) da sempre i neri creano e rinnovano il jazz; 2) ogni manifestazione della loro inventiva, dai minstrel (medio Ottocento) al ragtime (volgere del secolo) al jazz (prima metà del Novecento) al rock (seconda metà) è stata loro sottratta dai bianchi, che l’hanno smerciata fondandovi sopra fortune e carriere, mentre il nero è stato ogni volta lasciato a dissodare il terreno vergine per una forma espressiva nuova.
Prima che lo stile poi chiamato Swing potesse prendere piede, gli imitatori bianchi dovettero “sterilizzarlo” e “disinfestarlo”.
Gunther Schuller