Nel censimento della città dell’Avana del 1827 troviamo questo dato curioso: tra i 16.520 uomini bianchi di varie occupazioni ci sono 54 musicisti; tra i 6.754 maschi di colore, liberi, ci sono 49 musicisti ossia proporzionalmente un numero tre volte superiore. Sull’argomento, lo scrittore José Antonio Saco nelle sue Memorias sobre la vagancia en la Isla de Cuba scriveva nel 1832: “Le arti sono in mano alla gente di colore. Tra gli enormi mali che questa razza infelice ha portato alla nostra terra, c’è anche quello di avere allontanato dalle arti la nostra gente bianca”.
Varie erano le ragioni per il bianco di non considerare una professione quella del musicista. In primo luogo i pregiudizi di una società coloniale, da poco impiantata, che destinava i suoi figli alla magistratura, alla medicina, alla chiesa, alla carriera militare o, in mancanza di meglio, all’amministrazione pubblica, riservandosi il monopolio delle “condizioni onorevoli”. Inoltre il mestiere del musicista non risultava invidiabile per l’instabilità e la sconvenienza economica.
Invece per il negro il problema veniva vissuto in altra distinta maniera. Essendogli vietate tutte le professioni più remunerative, la musica costituiva per lui una professione molto stimabile che gli permetteva di ascendere la scala sociale.

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