Reggae routes: the story of Jamaican music, di Kevin O’Brien Chang e Wayne Chen, 1998, è un libro che tiene fede al suo stesso titolo: la storia della musica popolare giamaicana. Che in Giamaica, il Reggae non sia solo musica, ma filosofia di vita, mezzo di espressione del rastafarianesimo è cosa risaputa. Il libro esamina i modi in cui il Reggae diventa veicolo ed espressione dei sogni, i desideri e le realtà del popolo giamaicano, catturandone lo spirito ottimistico, “don’t worry..”, e rilassato, “easyman”, che rende la musica giamaicana così popolare. Interessante è senza dubbio la suddivisione della musica giamaicana in quattro epoche, ognuna con una caratteristica, i ritmi Ska, Rocksteady, Reggae e Dancehall. Lo Ska risale al 1960 circa, fino a metà del 1966; il Rocksteady da 1966 al 1968, mentre dal 1969 al 1983 il Reggae era la battito popolare. L’era del Reggae ha avuto due fasi, “early reggae”, fino al 1974, e “roots reggae”, fino al 1983. Dal 1983, lo stile Dancehall è stato il più diffuso. La classificazione è senza dubbio schematica e tralascia movimenti e ritmi pur importanti, ma è capace di rendere una perfetta sintesi.
dancehallNel leggere il libro la riflessione che colpisce giunge quasi alla fine, quando i due autori fanno un parallelismo tra la musica Blues e Dancehall, tra i protagonisti ed i sentimenti che albergano nei due ritmi. Gli autori indicano il percorso che avvicina inaspettatamente le due musiche partendo proprio da ciò che noi tutti in un primo e superficiale approccio potremmo ritenere: il Blues e il Reggae sembrano manifestare opposte sensibilità. Uno è rivolto al suo interiore, pessimista, avvilito. L’altro deciso, a volte aggressivo, ed essenzialmente ottimista. Ma ecco la sorpresa. Entrambi furono creati dagli strati più poveri della società: gli schiavi delle prime piantagioni. Da qui l’inevitabile affinità.
Kevin O’Brien Chang e Wayne Chen riportano come gli artisti del blues e del reggae cantano prima di tutto le loro disavventure personali, cose viste o vissute, questioni che li affliggono direttamente. Inizialmente alcuni tra i più importanti musicisti di entrambi i generi morirono in circostanze violente. Da Pinetop Smith, Sonny Boy Williamson e Little Walter a Peter Tosh, Tenor Saw e Dirtsman. La somiglianza tra i deejay dancehall e i cantanti blues è ancor più impressionante. La più importante, forse, è l’uso di materiale artistico proprio; i cantanti blues, almeno fino al 1950, cantarono loro composizioni, mentre nessun deejay che si rispetti ha copiato i testi di altri deejay. Inoltre, come alcuni dei più grandi cantanti blues, molti deejay non sapevano né leggere né scrivere. Il che può spiegare la schiettezza emotiva e la mancanza totale di autocontrollo di entrambe le musiche – le emozioni si trasmettevano direttamente dal cervello dell’artista al pubblico, senza essere filtrata da uno scritto o da una penna.
Insomma, sembrerebbe difficile distinguere una similarità musicale tra il blues melancolico e la quasi arrogante ed esuberante dancehall. Un filo in comune li collega: l’onestà emozionale e la franchezza dei sentimenti. Non ci sono tabù, niente è troppo banale, troppo ridicolo o troppo osceno da raccontare. Più di ogni altra forma musicale, il blues e la dancehall esprimono la filosofia del poeta romano Terenzio: Homo sum, humani nihil a me alienum puto – «Sono uomo, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me».