È impossibile esagerare l’importanza che ha avuto Bob Marley nella storia del reggae. L’artista che ha venduto più dischi, fatto più tournée, dato concerti con presenze massive di gente, il più internazionale, il più commentato; ci sono così tanti superlativi da risultare perfino superflui.
Il box-set di Marley “Songs of Freedom”, pubblicato nel 1992, ha venduto un milione di copie e per lungo tempo è stata la raccolta di canzoni più venduta nel mondo, includendo tutti i generi. Bob è l’unico artista reggae che ha catturato in maniera continua l’attenzione della stampa musicale.
Onorato dal Governo con l’Ordine di Merito Giamaicano, la terza massima onorificenza civile, equivalente più o meno al titolo di “Sir” della Gran Bretagna, il suo volto è apparso sui francobolli non solo della Giamaica, ma di tutto il mondo. Bob Marley ha dato ai rastafariani una legittimità. Per l’Ufficio del Turismo giamaicano Bob è un’istituzione nazionale, molto più attrattiva delle cascate di Dunn River, dei rent-a-dreads di Ocho Rios o del rum Wray&Nephew.
La sua vecchia casa è uno dei musei più visitati della capitale, la sua immagine o frasi delle sue canzoni sono sui cartelli piantati lungo il percorso che va dall’aeroporto a Kingston, e quando arrivi in città trovi dappertutto magliette, poster e souvenir con il suo volto. Per molta gente Bob Marley è il reggae. Per loro le 4 decadi di musica popolare moderna della Giamaica inizia e finisce con la Tuff Gong, la casa discografica fondata dai Wailers, di cui faceva parte anche Marley, e alcuni riducono questo periodo di musica ai nove anni che vanno dalla pubblicazione di “Cath a Fire” alla sua morte nel 1981, l’epoca nella quale Bob Marley, prima con gli Wailers e poi da solo, divenne una stella del rock, nel senso più ampio della parola.